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Perché il metaverso di Zuckerberg è tutto sbagliato

Non è il doppio digitale della nostra realtà, come vorrebbe la vulgata dei tecnoentusiasti, ma uno spazio ibrido e complesso. Lo spiega un libro

In tempi recenti, pochi altri fenomeni sono stati investiti da una tempesta di hype quanto il metaverso. L’azienda di Facebook ha persino cambiato il suo nome in Meta per meglio rispecchiare il suo impegno nella costruzione di quello che, almeno nella mente di Mark Zuckerberg, sarebbe dovuto diventare il nuovo stadio evolutivo del digitale, il nuovo ambiente virtuale in cui avremmo interagito, socializzato e complessivamente spostato le nostre vite. Tuttavia, non solo non è successo niente di tutto ciò, ma è anche fortemente difficile pensare che possa succedere davvero nel prossimo futuro. L’idea di Zuckerberg, annunciata in pompa magna nel 2021, insomma, al momento sembra più una cattedrale nel deserto. Eppure, il metaverso rimane un concetto non solo affascinante, ma anche piuttosto fecondo perché in grado di intercettare le traiettorie di sviluppo delle tecnologie future. Nel suo nuovo libro La zona oscura. Filosofia del metaverso (Luiss University Press), Simone Arcagni, docente di nuovi media all’Università di Palermo, traccia la storia del concetto di metaverso cercando di disancorarlo dalle interpretazioni più semplicistiche e stereotipate, spesso alimentate dalle mode, e mettendo in luce significati culturali e tecnologici molto più profondi.

Nel suo libro si parla del metaverso come di una “logica culturale” e di un’evoluzione del rapporto degli esseri umani con le tecnologie digitali. Vede un conflitto tra questo punto di vista e quello che invece professano Mark Zuckerberg e Meta?
Dal mio punto di vista il problema non è tanto Mark Zuckerberg in sé, quanto il fatto di esserci abituati a parlare di tecnologia sposando i punti di vista solo dei tecnologi e degli imprenditori digitali. Questo diventa problematico in particolare quando i comunicatori, gli accademici e i giornalisti danno per scontato che queste persone, per il solo fatto di essere i produttori della tecnologia, siano anche le migliori a comprenderla e a conoscerla. Se invece andiamo a scandagliare nella nostra memoria umanistica, nel cinema, nella letteratura, nelle mitologie, così come nella musica, troviamo già descrizioni non solo di queste tecnologie, ma soprattutto delle logiche che le costituiscono, degli impatti che possono avere e dei loro possibili risvolti. La tecnologia è il frutto dell’immaginario dell’essere umano, della sua voglia di raccontarsi e soprattutto della sua voglia di rapportarsi al il mondo che lo circonda e con le altre forme di vita, umane e non umane”.

Le origini del termine “metaverso”, ad esempio, non vanno ricercate nella tecnica, ma nella letteratura.
Metaverso, innanzitutto, è una parola inventata da uno scrittore, Neil Stephensonnel suo libro Snow Crash del 1992. Negli anni successivi molti studiosi si sono poi appropriati di quella parola. Il caso più emblematico è quello di Stephen Villa Weiss che, nel suo libro (In)visible: Learning to act in the Metaverse, parla di metaverso come di una logica spaziale, cioè della possibilità offerta dall’informatica di non usufruire unicamente delle solite interfacce quali schermo, tastiera o mouse, ma di disporre le informazioni in maniera spaziale, giocando sulla compresenza di spazio virtuale e fisico. Il libro di Villa Weiss è di 15 anni fa, un momento storico in cui Zuckerberg nemmeno immaginava il Metaverso. Questo tipo di elaborazione è stata però spazzata via dalla conferenza stampa con cui Mark Zuckerberg nel 2021 annunciò la sua idea di metaverso: fu come se tutto quello che avevamo cominciato ad apprendere, a studiare e a monitorare fosse stato accantonato perché un imprenditore doveva, di fatto, vendere i suoi Oculus. Questo per me è sintomo dell’’incapacità di leggere i fenomeni digitali senza un approccio umanistico, affidandoci completamente a un’idea puramente funzionalista: cosa può fare questa tecnologia? Questo approccio è veramente limitante, specialmente se si pensa all’impatto che le tecnologie hanno nelle nostre vite”.

Come ha reagito finora il mercato alla narrazione di Mark Zuckeberg?
Fortunatamente proprio il mercato, che doveva essere il suo punto forte, sta stroncando l’idea di Meta. Ultimamente ho anche sentito diversi rappresentanti di questa azienda sostenere di non aver mai inteso il metaverso solo come realtà virtuale, ma come realtà mista, o realtà aumentata. Anche Meta, insomma, sembra aver cambiato il suo approccio alla tecnologia. Inoltre, ora stanno anche dicendo che il metaverso non dovrebbe essere un unico universo, ma un insieme di tante piattaforme e di tanti siti tra cui sarà possibile spostarsi”.

Fa un po’ sorridere sentire parlare di interoperabilità da parte di un’azienda i cui ambienti online ne sono di fatto la sua negazione.
Il punto è che Meta ha trovato in Matthew Ball il suo cantore ideale. Ball ha svolto una ricerca meravigliosa ed è autore di un libro incredibile (The Metaverse: And How It Will Revolutionize Everything, ndr), che è però anche molto monodirezionale. Nel senso che è la glorificazione del modello di Zuckerberg, un approccio che nella pratica non può funzionare. L’interoperabilità, in questo contesto, è ormai un termine che non viene più usato perché si è capito che tra software chiusi, questioni di privacy e vulnerabilità ai cyberattacchi, l’interoperabilità non è tecnicamente possibile. C’è anche, e non in secondo piano, un discorso di insostenibilità dell’operazione dal punto di vista dell’impatto climatico. Tutto questo rende quell’idea impossibile e Meta stessa sta provando a ridefinirla. A mio parere, è vero che stiamo andando verso una dimensione informatica dello spazio, ma non ci arriveremo solo con i visori o con la sola computer-generated imagery (Cgi). Quello che vedremo sarà piuttosto un’ibridazione di tecnologie molto diverse che comprenderanno l’Internet of Things (IoT), la mixed reality, la aumented reality, in qualche caso specifico anche la virtual reality, certamene la Cgi, i vari assistenti virtuali come Alexa, Siri, la nuova sensoristica e il cloud.

Tornando alla letteratura e all’approccio umanistico alla tecnologia, uno degli autori che ritornano più spesso nel suo libro è William S. Burroughs.
Burroughs è incredibile, soprattutto in La macchina morbida. Mi sembra che il libro evolva da sé tra una rilettura e l’altra. È come se fosse vivo. Quel libro, da questo punto di vista, bypassa tutta una serie di discorsi triti e ritriti, come quelli che contrappongono reale e virtuale, fisico e non fisico. Burroughs, invece, aveva già intuito come la tecnologia non sia mai distinta dal corpo, dalla pelle, dalla sensazione e come la coscienza e l’intelligenza non siano mai separate dalla tecnologia a loro volta. Forse solo G. J. Ballard con Crash è riuscito in un tentativo simile di legare macchina e corpo. Burroughs supera tutto questo con il suo psicotico viaggiare nella letteratura. La sua è veramente la prima letteratura completamente incarnata nella macchina. E per questo può dirci molto anche in relazione al nostro rapporto con il metaverso”.

Pokémon GO è stato forse dimenticato troppo in fretta. Nel libro scrive di come in realtà quel gioco ci stesse dicendo molto di più di quello che poteva sembrare. Potremmo dire che, al momento, specialmente per diffusione, sia stata la rappresentazione più forte del metaverso come logica culturale che abbiamo finora visto?
Pokémon GO secondo me è veramente emblematico perché ci ricorda, da un lato, le potenzialità della tecnologia, ovvero il fatto di poter creare degli spazi ibridi, ma soprattutto degli spazi di attraversamento grazie alla computer graphic. Ci dice, però, anche un’altra grande realtà: che la dimensione più vera del digitale come uso e consumo è proprio quella del gioco. E l’architettura dei game non è mai neutra, ma porta con sé determinate caratteristiche. Diversi filosofi hanno riflettuto sulla non neutralità dei videogame, sulle strutture cognitive, non per forza negative, che stanno dietro la loro logica. Inoltre già vent’anni prima di Pokémon GO il Tamagotchi ci aveva fatto vedere come la vera natura del computer fosse quella di mimare la biologia. Adesso ce ne stiamo accorgendo con i chatbot, ma era una cosa già presente negli scritti di Alan Turing che parla del computer come di un cervello elettronico. Il Tamagotchi era emblematico di questa cosa e Pokémon GO è stato forse un passaggio ulteriore: non più solo un elemento non organico che simula un essere biologico, ma anche un elemento spaziale che ci chiede di interagire continuamente con degli effetti nella natura fisica. Però questo era vicendevole, ovvero gli effetti del fisico sul virtuale e gli effetti del virtuale sul fisico erano parte di un interscambio, di un’integrazione continua”.

Fonte: Wired.it

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