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La storia di Tim Cook, il leader invisibile che ha proiettato Apple in un’altra dimensione

È il più famoso degli anonimi. La persona di cui si sa meno tra quelle più ricche e potenti del settore tech (e del mondo). Lontano dal falò delle vanità della Silicon Valley, l’antitesi dei “macho-Ceo” che fanno del testosterone il loro asset più importante e che sono prezzemolini su qualsiasi social: dai selfie davanti ai razzi alle sfide a cazzotti nell’arena dei gladiatori. Anche il ritrattista dei grandi geni o presunti tali, Walter Isaacson (sua la biografia di Elon Musk, ma anche di Leonardo da Vinci, Albert Einstein ed Henry Kissinger), l’ha a malapena preso in considerazione. E nel suo monumentale libro su Steve Jobs, un “mattone” di 648 pagine, lo menziona soltanto sette volte. Addirittura, l’ex presidente americano Donald Trump, quando era alla Casa Bianca, con un fulminante lapsus l’aveva chiamato “Tim Apple”. E lui non solo non l’aveva corretto (in effetti con un presidente degli Stati Uniti non si fa), ma è stato al gioco, ribattezzando il suo profilo su Twitter “Tim Apple” e diventare a tutti gli effetti, almeno per qualche giorno, l’uomo che si identifica totalmente con l’azienda che guida.

Tim Cook è il “capo” di Apple. È una posizione che ha letteralmente ereditato da Steve Jobs, perché nelle ultime settimane di vita il carismatico imprenditore, famoso per il suo minimalismo in tutto tranne che nell’ego, l’aveva fortemente voluto alla guida dell’azienda. Era l’estate del 2011, Tim Cook aveva accettato l’incarico per la seconda volta (aveva già sostituito Jobs durante una prima convalescenza per lo stesso tumore che poi l’avrebbe ucciso) «non per fare quello che avrebbe fatto Steve Jobs, ma per fare quello che sarebbe stato giusto per Apple». In pochi anni, Cook è diventato l’araldo della privacy, dell’inclusione e dell’ambiente, trasformando profondamente la strategia dell’azienda che guida e aumentandone contemporaneamente il valore in maniera spettacolare.

Il coming out

In tutto questo, la sua vita è rimasta per lo più sconosciuta: per anni non si è saputo praticamente niente di lui, se non a grandi linee. Almeno fino a quando non ha deciso di fare coming out. Era il 2014 e la sua dichiarazione di essere gay ha fatto il giro del mondo. Dopotutto, era il primo Ceo di un’azienda tra le Fortune top 500 a dirlo apertamente. Lo ha fatto perché pensava che avrebbe aiutato i giovani in difficoltà nel vivere la loro identità sessuale. In un’intervista durante il Late Show con Stephen Colbert, Cook ha detto che, pur tenendo moltissimo alla propria privacy, riteneva che fosse più importante quello che poteva fare per le altre persone. E in un editoriale per Bloomberg Businessweek ha spiegato di sentirsi orgoglioso di essere gay: «Lo considero uno dei più grandi doni che Dio mi ha fatto». Concludendo con una dichiarazione piuttosto chiara sul perché un uomo così attento alla propria privacy avesse deciso di mettere in piazza per la prima volta la sua vita privata: «Percorriamo insieme il sentiero illuminato dal sole verso la giustizia, mattone dopo mattone. Questo è il mio mattone».

A parte il coming out, la storia di Tim Cook è talmente semplice da essere riassumibile in due paragrafi. È nato l’1 novembre del 1960 a Robertsdale, in Alabama, uno degli stati meno ricchi d’America, in una famiglia operaia. Suo padre lavorava in un cantiere navale e sua madre era commessa in una drogheria. Amante del fitness, soprattutto trekking e bici, ha una palestra privata per tutelare la sua privacy ed evitare qualsiasi incontro imprevisto (e poi perché pare che vada ad allenarsi la mattina prestissimo, praticamente a notte fonda). Il suo curriculum, a grandi linee, è noto: si è diplomato e poi laureato in ingegneria in Alabama, ha ottenuto un master in business administration mentre lavorava per Ibm (dodici anni come responsabile evasione ordini del settore pc) e poi, nel 1997, ha accettato una posizione analoga per Compaq, produttore di pc che dopo pochi anni sarebbe stato acquistato dal colosso Hp. Dopo solo sei mesi, però, ha fatto un colloquio con Steve Jobs, che stava creando la sua “squadra” per tornare alla guida di Apple, l’azienda da cui Jobs era stato cacciato nel 1985 dopo averla fondata a metà degli anni Settanta. Un incontro fulminante: Jobs ha convinto Cook che «nella vita bisogna seguire il cuore, non solo la razionalità». E quindi, addio sicurezza di un impiego a Compaq e benvenuta geniale imprevedibilità della nave pirata guidata da Steve, in cerca del più clamoroso secondo atto della storia del business mondiale.

Il valore aggiunto

La scelta gli è valsa, secondo le stime della rivista Forbes, circa 1,9 miliardi di dollari di patrimonio personale grazie alle azioni di Apple (poco meno dell’1%) e ai bonus piuttosto consistenti. Una ricchezza meritata secondo vari punti di vista ma, per la logica di mercato americana, soprattutto secondo quello che conta di più: il valore generato. Perché nel 2011, quando Steve Jobs gli ha dato le chiavi di Apple, la capitalizzazione di mercato di Apple era di 348 miliardi di dollari. Oggi, sotto la guida di Tim Cook, l’azienda vale circa 3500 miliardi. In dieci anni il valore è aumentato del 900%: sono cose che un investitore non dimentica facilmente.

Per Cook, lo stacco tra chi era e chi è oggi non potrebbe essere maggiore: è diventato uno degli uomini più importanti del pianeta. Non solo per il settore tech. La rivista Time lo ha inserito più volte nella classifica annuale delle 100 persone più influenti. All’inizio, nel 1998, si era fatto un nome in Apple grazie alla sua estrema efficienza e dedizione al lavoro. Ancora oggi attacca la mattina prestissimo (le prime email arrivano ai collaboratori che non sono ancora le cinque), non stacca mai, è instancabile. Quando non lavora, per quel che si sa è in palestra ad allenarsi oppure dorme oppure è in viaggio, diretto verso qualche meeting di altissimo livello, soprattutto in Cina, paese con cui cura personalmente le relazioni da quando era responsabile delle operazioni di Apple. È stato proprio questo approccio a decretare il suo successo.

Durante l’epoca di Steve Jobs, Tim Cook ha avuto un ruolo fondamentale, contribuendo al successo di Apple da dietro le quinte. Con una metafora calcistica, potremmo definirlo un mediano di spinta come non ce ne sono più. Mentre la ribalta era per il designer Jony Ive, che creava alcuni tra i gadget dal look più iconico di sempre, come l’iMac, l’iPod e poi l’iPhone, e mentre Jobs era in grado di ipnotizzare le folle da un palco globale grazie al suo talento innato da venditore – il famigerato “campo di distorsione della realtà” che affascinava collaboratori, investitori, giornalisti e il grande pubblico –, Cook restava invece nell’ombra. Era l’uomo d’ordine che faceva funzionare la macchina industriale con una efficienza impareggiabile non solo per chi fa gadget tecnologici, ma in qualsiasi altro settore merceologico. Ha infatti trasformato un’azienda tradizionale, con un’enorme magazzino di prodotti, in un capolavoro del just in time: scorte praticamente azzerate (con tutti i relativi costi per il capitale immobilizzato), struttura snella, una filiera produttiva globale che si estende in tutto il pianeta, una logistica da far invidia ad Amazon e agli altri campioni del settore.

Il “miracolo” di Apple, capace di trasformarsi da dinosauro tech sull’orlo del baratro finanziario in un gigantesco venditore di smartphone e altri apparecchi elettronici in pochissimi anni, è dovuto fondamentalmente all’organizzazione creata da Tim Cook. Ancora oggi il suo metodo, fatto di dedizione assoluta al lavoro, in termini sia di tempi sia di energie, è alla base della cultura aziendale. Se Jobs convinceva tutti a dare il massimo, Cook si assicurava che la pressione rimanesse costante. Il suo ruolo passa dal dare l’esempio: non smettere mai di lavorare. Per esempio, Apple acquistava ogni giorno 50 posti in business class da San Francisco a Shanghai, spendendo oltre 150 milioni di dollari all’anno con United Airlines. Perché? La leggenda vuole che nelle riunioni in sede a Cupertino i vari responsabili della produzione degli apparecchi di Apple si debbano sempre presentare con il passaporto con almeno sei mesi di validità in tasca. Se viene fuori un problema sulla linea di produzione, escono per andare direttamente in aeroporto e salire sul primo volo per Shanghai. A volte, se il problema è semplice, tornano dopo pochi giorni. Altre volte, rimangono fuori per qualche mese. Le famiglie vengono avvertite per telefono e quel che serve, abiti inclusi, si compra sul posto.

Una vita che non tutti i dirigenti di Apple volevano o potevano mantenere a lungo, allora come oggi. Tanto che ogni anno c’è un buon ricambio ai vertici operativi dell’azienda. Ma Tim Cook no: lui la porta avanti da 25 anni senza fare una piega. L’azienda, prima di tutto.

Un nuovo ruolo

Adesso, però, il suo ruolo è profondamente cambiato. E Cook non solo ha rivoluzionato la struttura di Apple, ma si è dimostrato anche un abilissimo negoziatore soprattutto in Cina, dove è stato responsabile degli accordi con i fornitori e gli assemblatori. Foxconn ma anche il governo di Pechino, con le fabbriche immense da cinquecentomila operai dove venivano assemblati decine di milioni di iPhone. Ha negoziato accordi commerciali con Pechino con molti cedimenti alla censura cinese, necessari per poter vendere in quel paese: via i riferimenti a Taiwan, ai fatti di piazza Tien-an-men, via anche l’app usata dai manifestanti pro-democrazia di Hong Kong per coordinarsi. Tutto questo per entrare nelle tasche dei consumatori cinesi con gli iPhone.

Certo, alla fine sono centinaia di miliardi di dollari di vendite, soprattutto da quando la Cina è diventata uno dei mercati in più rapida espansione grazie all’impetuosa nascita della classe media di un continente con tre miliardi di abitanti. Su tutto questo non a caso oggi lavora il successore di Cook alla guida operativa di Apple, Jeff Williams: un altro di cui sappiamo pochissimo se non che tocca a lui consolidare e fa funzionare il “motore produttivo” di Apple.

Ma non sono gli accordi con Pechino il momento più difficile della vita professionale di Tim Cook. Invece, è stata la serie di suicidi nelle fabbriche cinesi della taiwanese Foxconn, soprattutto tra il 2010 e il 2012, ad averlo potenzialmente messo a rischio. Suicidi nelle linee di produzione per Apple, HP e altre aziende occidentali, che l’azienda taiwanese aveva cercato di tamponare in prima battuta tirando delle reti fuori dai ballatoi esterni dei suoi stabilimenti. E che si erano trasformati in un disastro sui giornali di tutto il mondo. A guardare bene, però, come poi è stato dimostrato dai giornalisti dell’Economist e di Abc News, la storia in realtà era diversa. I suicidi rientravano nella media della popolazione cinese ed anzi erano inferiori. In ogni caso, la lezione è stata imparata rapidamente da Apple, che da allora ha attivato una serie di controlli molto stringenti sulla qualità del lavoro dei dipendenti dei suoi fornitori. Il ruolo di Cook? Pubblicamente non è noto, anche se si è sicuramente occupato della vicenda.

Da quando ha preso la guida di Apple ha mostrato subito che preferiva una guida più corale rispetto al micromanaging di Steve Jobs. Ha cominciato a delegare sia nell’operatività dell’azienda sia, più simbolicamente, sul palco dei keynote. Lo ha fatto in due modi: dando spazio ai collaboratori, ma anche cambiando il modo di vestire. Se infatti la Apple di Jobs negli eventi, vere e proprie cerimonie per celebrare l’arrivo dei nuovi prodotti, si focalizzava sul suo grande capo carismatico come grande showman, sempre in prima fila con il suo “abito di scena” fatto di dolcevita nero, jeans Levi’s e scarpe New Balance grigie, Cook ha creato fin da subito uno stile più “smart business”, che alterna pantaloni, polo o camicie sportive ad abiti interi senza cravatta.

Un attore schivo

È uno stile più morbido e convincente, dai toni misurati. Più elegante. Cook non ama salire sul palco per parlare in presa diretta, non ama la performance teatrale. Preferisce invece gli interventi registrati, dove può ripetere il suo monologo tutte le volte che lo ritiene necessario, fino ad arrivare alla perfezione. È metodico come il suo mentore, ma non ama mettersi in mostra. Tuttavia, ha anche tirato fuori insospettate doti da attore, come nel duetto con il premio Oscar Octavia Spencer durante il lancio dell’iPhone 15 lo scorso settembre. Perché tutto per Cook è in funzione di una cosa sola: il successo di Apple e dei valori che rappresenta.

La vera sorpresa, infatti, è un’altra: Cook si è dimostrato un leader molto più intelligente, forse pure più geniale, di quanto non si pensasse all’inizio. Che potesse essere capace di guidare alla perfezione la macchina produttiva di Apple era nelle aspettative, ma analisti e commentatori sottolineavano come il suo punto debole potesse essere la mancanza di una chiara visione tecnologica, un “occhio per il futuro” che invece contraddistingue i più grandi e carismatici capi delle aziende tech: dal pc su ogni scrivania di Bill Gates al trasloco su Marte di Elon Musk passando per tutto quello che c’è nel mezzo, compreso il mondo minimalista, chic e post-pc di Steve Jobs. Per gli analisti e la stampa, al momento del suo insediamento Cook sembrava più che altro uno Steve Ballmer (l’ex amministratore delegato di Microsoft, ndr), una sorta di personaggio secondario che deve riempire un vuoto lasciato dal padrone di casa.

È andata molto diversamente. Perché Cook ha creato una leadership corale, dopo aver semplificato fortemente il gruppo alla guida dell’azienda (sono usciti Scott Forstall, il delfino di Jobs, e il designer britannico Jony Ive, oltre a molti altri dirigenti), e ha identificato una serie di collaboratori di livello, dopo qualche passo falso soprattutto con John Browett, assunto per guidare gli Apple Retail Store e licenziato dopo sei mesi, e con Angela Ahrendts, che è durata invece tre anni. Tra l’altro, Cook ha imparato che le soluzioni migliori sono quelle che nascono ascoltando il gradimento e il consenso interno, e oggi i negozi sono sotto l’ala di Deirdre O’Brien, veterana di Apple molto stimata dai collaboratori e responsabile anche di molte altre aree di gestione dell’azienda, dalle vendite al personale. Soprattutto, Cook è riuscito a creare una strategia nuova, basata su alcuni valori. Tre, per la precisione: privacy, ambiente e inclusione. Affermando che la privacy è un diritto umano universale, alzando l’asticella in maniera notevole per il rispetto dell’ambiente (nel 2013 ha assunto Lisa Jackson, già a capo dell’Agenzia Usa per la protezione dell’ambiente, che si sta rivelando una delle sue scelte più azzeccate di sempre) e dimostrando sulla sua pelle che l’inclusione e la diversità sono un valore “vero”, sia all’interno di Apple sia nel modo in cui vengono pensati i suoi prodotti. La tecnologia è lo strumento per rendere il mondo un posto migliore e consentire alle persone di esprimere tutto il loro potenziale.

Forse il suo ottimismo filosofico è esagerato, ma il risultato in termini finanziari ha dato ragione alla scelta di Jobs: Cook era la migliore persona possibile da mettere alla guida di Apple. Con il tempo, anche la sua mancanza di visione “tech” in realtà si è dimostrata relativa. Prendendo sempre più confidenza con il suo ruolo di guida dell’azienda e lavorando sui tempi lunghi con l’approccio che preferisce, cioè per successive iterazioni anziché per “strappi”, Cook ha lentamente costruito la sua visione tecnologica di lungo periodo. Una visione che ruota attorno a una tecnologia: la realtà aumentata. E, in attesa di avere occhiali o lenti a contatto digitali, per adesso il futuro di Apple è nell’Apple Vision Pro, il visore di realtà virtuale in corso di lancio sul mercato. E poi, come sempre, la visione di lunghissimo periodo, altra grande scommessa che l’azienda sta continuando, con ferma lentezza, a perseguire: l’auto elettrica di Apple.

Tuttavia, la prudenza, la timidezza di chi non ama esporsi su un palco – sposata però con la capacità di recitare con un premio Oscar senza problemi –, il passo lungo da maratoneta, la quantità di lavoro monumentale che riesce a mettere a terra, ancora non sciolgono il punto centrale: chi è veramente Tim Cook? Un algido robot aziendale? Una persona intensa e molto riservata o un leader che, dietro il velo della privacy, nasconde una vita vuota, priva di colori e affetti? Non lo sapremo davvero mai, a meno che non voglia essere lui stesso a spiegarcelo.

Fonte: Wired.it

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